“Da febbraio a maggio 2022 abbiamo tenuto un laboratorio di storytelling presso il liceo “Albert Einstein” di Milano. A partecipare 10 studenti delle classi prime e seconde dell’istituto. Oggi vogliamo pubblicare uno dei racconti scritti dai partecipanti”.

immagine di Arianna Manzonetto

Come un filo invisibile

di Giulia Rubino

La mia mattina si svolge sempre allo stesso modo: mi sveglio a causa di mia mamma che spalanca le finestre proprio con l’obiettivo di “mettermi in movimento”. Detesto questo gesto, perché i raggi di sole mi colpiscono in maniera tale che aprire gli occhi mi risulti ancora più faticoso. Oggi mi alzo senza neanche aprire gli occhi e per sistemare le coperte mi affido esclusivamente al tatto. Trovo il coraggio di aprirli solo dopo, non tanto per evidente necessità, quanto per la curiosità di vedere il risultato ottenuto. Mi stupisco di me stesso: le lenzuola sono dritte, ben stese, simmetriche, insomma, ho svolto un lavoro impeccabile. 

Il sentimento di soddisfazione si interrompe però bruscamente, sono travolto dall’ansia. Oggi non è un giorno qualunque, è il dies nefastus, meglio conosciuto come giorno della versione. Come sempre ho studiato e mi sono esercitato adeguatamente, eppure l’idea di rovinare la mia media del 9, di scalfire quella perfezione anche solo con un 9-, mi fa rabbrividire. Apro istintivamente il mio quaderno di poesie. Il raccoglitore è diviso in due sezioni, nella prima sono trascritte poesie di altri autori, mentre l’altra è dedicata alle mie. Inizio a leggere sottovoce << La speranza è un essere piumato che si posa sull’anima, canta melodie senza parole e non finisce mai, Emily Dickinson.>> Scandisco bene ogni parola, cercando comunque di tenere un buon ritmo, come sempre. Chiudo delicatamente il quaderno e lo poggio altrettanto dolcemente sullo scaffale. Mi piace avere cura delle mie cose, anche di quelle più piccole che ad occhi poco attenti potrebbero apparire senza valore. Penso invece che prestando attenzione ad un oggetto questo diventi più importante. 

Scendo a fare colazione. In cucina mi si palesa davanti agli occhi una scena consueta. Mia madre stringe fra le mani la sua solita tazza bianca con una fantasia di fiori azzurro pastello, all’interno il solito tè verde, sul tavolo in un piattino dello stesso servizio da tè, ben allineati i soliti 5 biscotti secchi. Se chiudo gli occhi potrei descrivere quest’immagine alla perfezione senza bisogno di guardarla. Ma oggi succede qualcosa di imprevisto. Mia madre mi rivolge la parola, prima di aver terminato il suo tè.

 << Buongiorno Davide, ti va di fare due chiacchiere?>>

<<Ma certo mamma, mi fa molto piacere>>

<<Anche a me, ma vado dritta al punto – scusa la schiettezza. Sicuramente avrai presente Giacomo, il caro amico di papà.>>

<<Certamente, mamma.>>

<<Lui ha una figlia, si chiama Alessia, se non ricordo male. Ha quasi la tua età, è in primo liceo scientifico.>>

<<Come mai non l’ho mai conosciuta? Lo invitiamo spesso con la famiglia a cena, come mai lei non viene?>>

<<Ecco, è proprio questo il punto dolente. Purtroppo quella ragazza è sempre stata motivo di imbarazzo per la famiglia, a partire dal modo di vestire, ai termini che utilizza per esprimersi. Poi la situazione è degenerata, quando ha insistito per non frequentare il liceo classico, ma lo scientifico.>>

<<Non esageriamo mamma, è pur sempre un liceo.>>

<<Ma certo, però si sa che il classico non ha eguali. Comunque, il vero dispiacere è che non sta portando a casa ottimi risultati, ma a dirla tutta nemmeno buoni, direi neanche discreti, in realtà ad essere sinceri, i suoi voti sono assolutamente pessimi, ripugnanti. Capisci che Giacomo è disperato, sapendo che un domani la figlia dovrà portare avanti l’azienda di famiglia, e non può certo lasciarla nelle mani di una persona del genere.>>

<<Capisco…>> dico con un po’ di imbarazzo.

<<Chiaramente Giacomo non sa come orientarsi, pover’uomo non si meritava una disgrazia del genere, chissà perché con tutte le ragazze che ci sono al mondo proprio questa porta il suo stesso cognome…>>

<<Suvvia mamma, quello che hai detto è molto sgradevole!>>

<<Ma è la verità, Davide. La ragazza rischia la bocciatura, anzi, è molto probabile che venga rimandata, e non può permetterselo, l’intera famiglia non può permetterselo. Il futuro dirigente dell’azienda con una bocciatura in primo liceo nel curriculum, te lo immagini?>>

<<Ma in tutto ciò, come mai ne parli con me?>>

<<Allora, sappiamo bene che tu sei uno studente modello, oserei dire lo studente modello, e magari nelle materie umanistiche potresti aiutarla, studiare insieme a lei per esempio.>>

<<Ti prego mamma, lo sai che non posso permettermi altri impegni, ho già organizzato il mese di maggio, dovrei sconvolgere il mio piano di studio, non posso rovinare la mia media proprio adesso!>>

<<Ma che dici Davide, sono sicura che saprai organizzarti benissimo come sempre. Sai, Alessia ha la media insufficiente in latino, italiano e persino storia. Magari con il tuo aiuto…>>

<<Mamma ti rendi conto che mi stai chiedendo di fare un miracolo?>>

<<Ma che miracolo e miracolo, un sei in tutte e tre sarà più che sufficiente. Ma non di meno, dato che in scienze e matematica avrà irrimediabilmente il debito. Povero Giacomo, che disonore, non puoi immaginarti l’imbarazzo con cui mi ha parlato di questa situazione al telefono.>>

<<Non sarebbe meglio a questo punto per lei studiare con un professore, se è veramente così in difficoltà?>>

<<Allora proprio non vuoi capire Davide? Questa ragazza manca di rispetto a ogni adulto che incontra, e comunque Giacomo ha una dignità da preservare, già il massimo a cui può puntare la figlia è una media del 6, almeno si deve pensare che ce l’abbia fatta da sola.>>

<<Addirittura! Non penso che stiano tutti a pensare alla media della figlia di Giacomo…>>

<<Davide, sei ancora piccolo per capire certe cose. Stamattina chiamerò Giacomo e gli dirò che sei disponibile ad aiutare Alessia. Ti chiedo solo acqua in bocca, chiaro? E sbrigati che devi andare a scuola, non c’è tempo per discutere. A proposito, ho visto sul registro che oggi è il dies nefastus. Mi raccomando, come sempre, si punta all’eccellenza.>>

Annuisco e vado a prepararmi. Per fortuna la camicia è già stirata, ma comunque mi devo preparare di corsa. Esco di casa senza neanche guardarmi allo specchio, non perché non ne avessi tempo, bensì perché non ne ho avuto il coraggio. Fretta e precisione non vanno d’accordo. 

Arrivo a scuola con solamente due minuti di anticipo. Le prime due ore cerco di concentrarmi sulla spiegazione e probabilmente riesco anche a dare l’impressione di farlo, ma nella mia testa il mio unico pensiero è la versione. Arriva l’intervallo, che sfrutto per ripassare latino per l’ultima volta, ma come sempre quei 15 minuti volano e in un battito di ciglia mi ritrovo davanti a una versione di Sallustio, “Virtù e vizi smisurati”. Procedo in maniera lineare e senza particolari difficoltà, finché non arrivo all’ultima frase. Una frase lunga, piena di virgole, devo ammettere che in questo caso trovo la costruzione del periodo molto complessa. Ci ragiono su, ma niente da fare, ogni tentativo risulta vano. Quando la campanella suona, mi percorre un brivido lungo tutta la spina dorsale: di sicuro non prenderò 9. Come farà ad accettarlo mia madre, mio padre, come farò io ad accettare questo clamoroso fallimento? Scendo velocemente le scale, per fortuna è l’ultima ora. Con la mano mi asciugo la fronte, sto sudando freddo. Percorro il piano terra tutto a testa bassa, e finalmente esco dalla scuola. Come se non bastasse, piove a dirotto. 

Mi fermo un attimo, mi guardo intorno. Le persone senza ombrello corrono per non bagnarsi, alcuni si coprono la testa con il cappuccio della felpa. Nonostante il rischio di scivolare, tutti ridono mentre corrono sotto la pioggia battente. Quelli che si erano incomprensibilmente preparati alla pioggia, invece, sfoggiano ombrelli e giubbini impermeabili tutti colorati. I bambini sono divertiti, alcuni saltano nelle pozzanghere, altri vorrebbero ma non hanno il permesso dei genitori, quindi si limitano a guardare la loro immagine riflessa nell’acqua e a stupirsi. Poi alzo lo sguardo per vedere il cielo, le nuvole grigie, le gocce cadere una dopo l’altra. Una goccia cade in mezzo alla lente destra degli occhiali. Incredibile come questa piccola goccia, questa minuscola quantità di acqua, in un secondo mi abbia portato alla mente un sacco di immagini, di scene della mia infanzia. Un giorno in particolare, che mi ha segnato per sempre. Ero molto piccolo, avevo circa otto anni. Quel giorno a scuola la maestra di ginnastica aveva diviso la classe in due squadre per disputare una partita di calcio. Si avvicinava la fine dell’ora eravamo pari, 1-1, a decidere velocemente la squadra vincitrice, i rigori. Tutto dipendeva da me, mi sentivo tutti gli occhi addosso. Cercai di farmi coraggio, presi un bel respiro, e calciai con decisione la palla. Questa però andò lontano dalla porta, sbattendo con forza sull’angolo sinistro della palestra. Immediatamente i bambini della squadra avversaria iniziarono ad esultare, abbracciandosi, battendosi il cinque, gridando come se avessero vinto i mondiali e urlando tra le risate <<grazie Davide!>>. Quelli della mia squadra, invece, non mi parlarono per il resto della giornata. Poi, usciti da scuola, senza neanche salutare i genitori che li aspettavano iniziarono a rincorrermi lungo tutto il marciapiede, e quando mi raggiunsero mi picchiarono, provocandomi lividi e dolore ovunque. Mi aspettavo che i miei genitori avrebbero preso le mie difese, che avrebbero richiesto un appuntamento urgente alla Preside perché prendesse provvedimenti contro chi mi aveva usato violenza e invece mi sgridarono, lì davanti a scuola, davanti a tutti, per aver sbagliato il rigore e per non essermi difeso, ribadendo quanto fossero delusi e quanto dovessi vergognarmi. Mentre tornavamo a casa iniziò a piovere. Alzai gli occhi al cielo. Una goccia cadde proprio in mezzo alla lente destra degli occhiali. Non saprei dire come mai mi ricordo ancora di questo particolare, ricordo solo che ero convinto che il cielo avesse iniziato a piangere per quello che mi era successo. Forse anche adesso il cielo sta piangendo per me. Anzi, si sta disperando per me, le sue lacrime stanno facendo cadere le foglie e i fiori dagli alberi, stanno sbattendo sui tetti, sulle macchine, sta facendo correre tutti questi ragazzi, sta rovinando la giornata a tutti quei giovani che sarebbero voluti uscire per andare al parco, giocare a palla, passeggiare, e a tutti i proprietari dei negozi, che si preparano a una giornata priva di vendite, e a tutti i gatti randagi, che odiano l’acqua e che sono costretti a bagnarsi per cercare un riparo. Anche io quel giorno mi sono rifugiato in un pianto disperato, avevo fallito, avevo deluso tutti. È da quel giorno che non mi sono più permesso di sbagliare, ed è da quel giorno che non ho mai più pianto così, e anche oggi cercherò di mantenere il controllo. 

Entro a casa, mi cambio subito perché trovo il tessuto bagnato sulla pelle estremamente fastidioso. La mia camicia preferita, nonché appena stirata, è completamente fradicia. Metto tutto in lavatrice e mi faccio una doccia calda, cercando di non pensare a quando dovrò dire ai miei genitori che la versione è andata male, a quando il prof. correggerà la mia verifica, a quando i miei compagni sapranno il mio voto, a quando io saprò il mio voto. Mi metto direttamente il pigiama, e decido di non pranzare. Con tutto quello che è successo, mi manca proprio l’appetito. Mi preparo invece una camomilla e mi sistemo sul divano a leggere un libro di Jane Austen, Orgoglio e Pregiudizio, precisamente la parte in cui Elizabeth legge la lettera in cui c’è scritta la verità sul signor Darcy e sul signor Wickham. Ogni volta è come se leggessi questa parte per la prima volta, come se non sapessi nulla del contenuto della lettera e scoprissi di nuovo tutta la verità. Poi accendo la tv, controllo se c’è qualcosa di interessante, ma niente mi convince. Vado in camera mia, prendo un foglio e una penna e inizio a scrivere di getto i miei pensieri. Poi butto tutto nel cestino, e ovviamente faccio la raccolta differenziata. Una distrazione tira l’altra e arriva l’ora di cena. Ancora non ho molta fame, perciò non finisco il piatto di pasta, e cerco di evitare in tutti i modi di parlare con mia madre. Per fortuna mio padre è ancora in Francia per lavoro, lui avrebbe cercato in tutti i modi di farmi parlare, con la sua solita e insopportabile insistenza.

<<Come è andata la versione?>>

<<Non so il voto.>>

<<Certamente, ma puoi immaginartelo.>>

<<No.>>

Salgo in camera e mi metto a dormire, soddisfatto di me stesso per aver mantenuto il controllo e la calma per tutta la giornata nonostante tutto. 

Mio sveglio un po’ turbato. Non ricordo molto bene che incubo ho fatto, ricordo solo scene sconnesse: nel sogno il prof. mi ridava la versione, persone che ridevano, dei bambini, qualcuno mi picchiava, i miei genitori, poi delle urla, la pioggia, confusione, rabbia, ma tutto senza un senso vero e proprio, solo immagini su immagini, suoni su suoni. Anche oggi inizio la giornata sistemando le coperte, ma stavolta mi accontento di un lavoro poco più che decente, perché continuo a pensare a tutto quello che ho sognato e a tutto quello che mi è successo. Scendo a fare colazione. Per fortuna è domenica, ho proprio bisogno di una giornata tutta per me.

<<Oggi è il gran giorno>> mi dice la mamma.

<<Ovvero?>>

<<Alle 11 viene Alessia in casa così stamattina studiate insieme>>

È vero, la faccenda di Alessia, ci mancava solo questo… me ne ero completamente scordato, seconda cosa non da me di oggi.

<<Ma oggi? Non potevi dirmelo prima>>

<<Davide, ieri sera non mi sembravi molto propenso a conversare, e comunque un’ora per prepararsi basta e avanza. Oggi farete insieme i compiti di latino, tra una settimana ha una versione, e come sai bene non può permettersi un’insufficienza. Adesso finisci la colazione.>>

Così inzuppo l’ultimo pan di stelle nel latte e poi lo bevo, nonostante sia ancora troppo caldo.

Alle 10:45 precise sono pronto. Porto il dizionario di latino in cucina, con un foglio a righe e un po’ di evidenziatori. Alle 11 arriva Alessia, è puntuale, non può essere così male.

<<Buongiorno a tutti!>> ci saluta Giacomo.

<<Buongiorno anche a voi.>>

Guardo Alessia: la prima cosa che noto sono i capelli spettinati rossi con qualche treccina qua e là, probabilmente stamattina non si è neanche pettinata. Poi noto che si è messa tantissimo mascara e sulle labbra ha un rossetto rosso. Ma come è possibile, si è truccata e non si è pettinata? Vabbè, ognuno ha le sue priorità. Le unghie sono lunghissime e appuntite, con lo smalto nero lucido e una fantasia di fiori rossi. Infine mi soffermo sulla maglietta di due taglie in più, porta il nome di una band che non conosco. I pantaloni della tuta neri sono anche questi molto grandi, ai piedi ha delle scarpe da ginnastica usate e ampiamente rovinate. Le braccia sono piene di bracciali ed anche al collo ha ben due collanine. Ma dove pensa di essere al circo?

<<Okay ora la smetti di fissarmi?>>

Sì forse è il caso.

<<Piacere Davide>>

<<Il piacere è mio…>> mi dice ironicamente mentre rifiuta la stretta di mano.

<<Andiamo in cucina>> le dico, convinto che avremmo studiato lì.

<<Ah no Davide, adesso io e Giacomo ci beviamo un caffè, ma potete studiare in camera tua, anzi, sposta pure le tue cose dal tavolo.>>

Ma oggi sono tutti fuori di testa? Ovviamente controvoglia le faccio strada in camera mia. È abbastanza ordinata, ma comunque ricordo bene che le lenzuola non sono ben stese.

<<Che camera triste>> dice Alessia. Triste perché è civile suppongo. Comunque non rispondo.

<<Allora, a che argomento siete arrivati di latino?>>

<<Boh che ne so.>> Forse la situazione è peggiore di quanto pensassi.

<<Guarda sul diario.>>

<<Non scrivo i compiti.>>

<<Allora sul registro.>>

<<Ok scarico l’app.>>

A maggio non ha ancora scaricato l’app della scuola, andiamo di bene in meglio. 

<<Aspetta due minuti.>>

<<Ma certo tranquilla.>>

Così poggia il telefono sulla scrivania. Poi apre il mio armadio, ma come si permette?

<<Vediamo quante camice hai… una, due, tre, …>>

<<Smettila!>> 

<<Ma tu chi sei per dirmi cosa fare.>> Ma che motivazione è? C’è bisogno di dire che frugare negli armadi altrui è pura maleducazione?

<<È il mio armadio.>>

<<L’avevo notato con tutte queste camicie, in realtà avrei detto di mio nonno ma è lo stesso. Quattro, cinque, …>> Che ha da dire? La classe non è acqua, di sicuro non sono io quello vestito in modo inopportuno.

<<Sette camicie.>>

<<Otto camicie contando la mia.>> La correggo, non sa nemmeno contare.

<<Ma grazie come farei senza di te!>> Mi risponde ironicamente, che irritazione quando la gente usa troppa ironia.

<<Penso che adesso si sarà scaricata l’app.>>

Ci sediamo alla scrivania. Apro il suo libro alla pagina segnata sul registro, la quarta declinazione. Ma prima di tutto, lei sa le altre tre?

<<Prima di iniziare, facciamo un breve ripasso.>>

<<Pensi davvero che ti prenderò sul serio?>> Mi interrompe, ma come si fa ad essere così maleducati?

<<Meglio ripetere gli argomenti di prima qua, invece che in classe a settembre, non trovi?>>

<<Questione di gusti, ma dov’è il bagno?>>

<<Lì in fondo>>

Di sicuro sta andando in bagno per non stare con me, ma è lei che ci perde. Ma come le viene in mente di toccare le mie cose così? Pensa di essere a casa sua? Immediatamente penso al quaderno di poesie, devo nasconderlo. Idea geniale, sotto il cuscino.

Passano 15 minuti e Alessia è ancora in bagno, così la mia ipotesi è confermata. Se fossi un prof. adesso chiamerei un’altra alunna e le chiederei di andare a vedere come sta Alessia, un modo gentile per chiederle di tornare in classe.

<<Eccomi.>>

<<Perfetto, stavo dicendo, almeno la prima declinazione la sai?>>

<<Sì.>>

<<E ti va di ripetermela?>>

<Sì guarda muoio dalla voglia.>>

Inizio a sfogliare il suo libro, e noto subito che il primo capitolo è sottolineato, pieno di appunti con tutti gli esercizi fatti. Il secondo un po’ di meno, ma comunque con i compiti svolti. Poi dal terzo niente, come se quelle pagine non le avesse mai aperte.

<<Perché da qui non hai più fatto nessun esercizio?>>

<<Ah quindi, non solo pensi di potermi fare da prof. ma ti vuoi pure fare gli affari miei.>>

<<Senti chi parla.>> Dico guardando verso l’armadio.

<<Intanto quello che ha appena sfogliato il mio libro sei tu.>>

Si alza dalla sedia e si sdraia sul mio letto, come se fosse una cosa normalissima, tra l’altro. Ormai non mi pongo più domande, certe persone sono incomprensibili. Ora capisco cosa intendeva la mamma.

<<Ma che scomodo questo cuscino…>>

Nello stesso identico modo di ieri, un brivido mi percorre lentamente tutta la spina dorsale. Il cuscino.

<<Aspetta ma sotto c’è un quaderno.>>

<<Non lo toccare!>>

<<Tu hai toccato il mio libro.>>

Ha di nuovo ragione. Che rabbia. Apre alla seconda sezione, quella delle mie poesie.

<<L’amore è come il vento che… allora ho davanti Dante, che onore.>> Il suo sarcasmo è insopportabile. Le strappo il quaderno dalle mani, ma adesso che faccio? Sento la voce della mamma.

<<Venite in cucina!>>

Guardo l’orologio, sono le 12:30. Di già? Metto il quaderno sulla scrivania, poi andiamo in cucina.

<<Ciao ragazzi!>> dice mia mamma con un sorriso smagliante. 

<<Cosa avete studiato?>>

Non abbiamo studiato niente, niente di niente.

<<Abbiamo un po’ ripassato le declinazioni.>> È la prima volta che mento così a mia mamma. Ma che mi sta succedendo?

<<Che bravi! E vi siete divertiti?>> 

<<Beh oddio>> interviene Alessia, il padre la guarda malissimo.

<<Mi permetto di offrirvi un aperitivo, qualche sciocchezza, ho preso delle patatine, delle noccioline, adesso taglio la focaccia… Alessia, preferisci la Coca cola o la Fanta?>>

<<Mi fanno schifo entrambe.>> Ora capisco perché Giacomo non la porta con sé a cena.

Mangiamo l’aperitivo, Giacomo e la mamma scambiano due chiacchiere, mentre io e Alessia non ci rivolgiamo la parola. Poi Giacomo e Alessia finalmente se ne vanno.

<<È stato un piacere!>> li saluta la mamma.

<<Il piacere è nostro!>> risponde con gioia Giacomo.

<<E voi due non vi salutate?>> continua il papà di Alessia.

<<Ciao.>>

<<Ciao.>>

La mamma prepara la pasta, nel mentre salgo in camera. La camera dopo l’intervento di Alessia è contaminata. Vado in bagno e vedo che Alessia ha tirato fuori tutte le cose dai cassetti e le ha lasciate a terra, e ha schizzato acqua ovunque, sullo specchio, sul lavandino, per terra. Corro in camera mia. Provo una sensazione stranissima. Un’emozione inspiegabile. Una rabbia inspiegabile. Sento il battito sempre più accelerato. Respiro sempre più affannosamente, è come se la camera sia diventata improvvisamente più calda. Tutto avviene in modo graduale, ma allo stesso tempo in maniera veloce. Poi inizio a gridare, a piangere, a dare pugni al letto, a lanciare tutte le penne sulla scrivania, a strappare i fogli che avevo lasciato, a buttare per terra tutte le mie camicie, e do calci al muro, pugni al muro, piango così tanto che mi manca il fiato. Non perdevo il controllo così da quando avevo otto anni. Che mi sta succedendo? È tutta colpa di Alessia, tutta colpa sua! Io non sono così, non posso essere così, è lei, è sua la colpa, io non c’entro niente. Continuo a dare pugni alla parete, poi al materasso, sto forse impazzendo? Una sola cosa è certa: io odio Alessia e odio come mi fa sentire.

<<È pronto>> grida la mamma. L’ultima cosa che ho voglia di fare è stare con lei, e mi manca pure l’appetito. Vado in bagno, mi sciacquo velocemente la faccia e corro in cucina.

<<Eccoti qui, che è successo?>>

<<Niente.>>

<<Ma se ti ho sentito gridare e piangere fino a cinque minuti fa…>>

<<Ti ho detto che non è successo niente.>>

<<Va bene, fingo di crederci. Sarò sincera fino in fondo: sappi che non mi interessa minimamente quello che ti sta accadendo in questo periodo. So solo una cosa, è l’ultimo mese di scuola, la concentrazione deve essere massima.>>

Non mi stupisco minimamente di quello che ho appena sentito. La mamma non si è mai preoccupata per me, ha sempre e solo pensato ai miei voti, al mio rendimento, al mio futuro. Ma questa è la prima volta che il suo modo di fare mi pesa.

<<Non ho fame.>>

Ritorno in camera mia. La mia camera è un porcile, il bagno è un porcile. Butto i fogli strappati, metto le penne nell’astuccio, e raccolgo tutte le cose del bagno da terra per riportarle nei cassetti. L’acqua si asciugherà. Mi avvicino al letto per sistemare le coperte, ma l’unica cosa che mi viene di fare e buttarmi sul materasso. In fondo mi merito un po’ di riposo, è giusto così. E come se fosse la cosa più normale del mondo, senza indossare in pigiama, senza mettermi sotto le coperte, senza fissare una sveglia, mi addormento. Dormo profondamente, per fortuna non sogno nulla. Mi sveglio, guardo l’ora sul telefono. 19:31. Ho dormito per tutto il pomeriggio. Vado in cucina per bere un po’ d’acqua. Mentre mi verso l’acqua nel bicchiere, boom. Domani ho la verifica di matematica. Non so niente. Il bicchiere mi è caduto per terra. Che mi sta succedendo? Nulla sembra avere senso. Prendo la scopa per raccogliere i frammenti di vetro e buttarli. Corro in camera, apro il libro di matematica. Mi gira la testa, forse non avrei dovuto correre, mi sono appena svegliato. Scrivo la consegna di un possibile esercizio su un foglio. Mi viene un risultato insensato. Rileggo lo schema del procedimento. Riprovo. Non c’è niente da fare, non ne sono capace. Prenderò 3. Sbaglierò tutta la verifica. Sto sui libri fino a mezzanotte e mezza. Oggi non ho mangiato niente. Ho fame. Ho mal di testa. Non ho voglia di fare i compiti. Mi alzo in piedi. Osservo la mia scrivania. È di nuovo un disastro. Mi metto il pigiama per stare più comodo. Preparo le lenzuola. Come mi sono ridotto? Non avevo mai studiato così poco, così tardi e così male per una verifica. Mi infilo sotto le coperte, poggio la testa sul cuscino, dormo.

Mi sveglio intorno alle sei e mezza, come al solito per i raggi di sole. Una volta avevo sentito in giro che quando dormi troppo poi hai sonno. Pensavo fosse solo una leggenda metropolitana. Ho appena sperimentato che è vero. Ieri sera non ho neanche preparato la cartella. Ho ancora mal di testa. Forse è perché non mangio dall’aperitivo di ieri. Devo mangiare qualcosa, altrimenti svengo. Mi riscaldo il latte, e finisco il pacco di pan di stelle. Avevo proprio bisogno di una bella colazione. Mi lavo, mi vesto e preparo la cartella. La verifica andrà male.

Esco di casa, senza nemmeno salutare la mamma. Sono troppo preso da matematica. Questa situazione è surreale. Un’idea orribile, ma stupenda, mi fulmina. Veramente un lampo di genio. Posso balzare. Tanto ho pochissime assenze e mio padre mi ha dato la password per giustificare sul registro.  Non so perché provo una gioia assurda. Ma è stupendo. È da tanto tempo che non sono così contento. Nessun bel voto mi ha mai fatto stare così bene. È bello essere felice. Mi mancava. Mi dirigo verso il bar, e mi siedo a un tavolino vuoto. Ordino un cappuccino e una brioche alla crema. Intanto la felicità aumenta ogni minuto che passa. Adesso è persino troppa, rido fra me e me. Vado a pagare con i soldi nello zaino.

<<Complimenti, la colazione era deliziosa.>>

La ragazza ringrazia ridendo e mi dà il conto.

La mamma è a lavoro. Torno a casa per lasciare lo zaino. Forse la situazione non è disastrosa come pensavo. Non so molto bene cosa sta succedendo. Non riesco a smettere di sorridere. Esco e passeggio. Oggi la giornata è bellissima. Il sole splende, il cielo è sereno. Anche il cielo è felice per me. È senza dubbio una delle più belle giornate della mia vita. Vado alla Guastalla, mi è sempre piaciuto quel parco. Però oggi mi sembra più bello. Oggi è tutto più bello. Non ho mai provato così tanta gioia, è tutto così magico. Guardo l’ora al telefono, in questo momento sarei dovuto essere in classe a fare la verifica di matematica. Invece sono al parco a godermi la vita. È proprio una bella giornata, passarla chiusa in classe è proprio uno spreco.

Torno a casa. Controllo il registro: mi hanno segnato assente. Giustifico l’assenza per motivi di salute. In fondo sono stato anche abbastanza sincero, il mio corpo aveva bisogno di una giornata così. Oggi il mondo mi sembra più colorato. Mi tolgo la camicia e mi vesto con la tuta. Apro Netflix e mi guardo un film. Faccio appena in tempo a finirlo che sento la porta aprirsi, è arrivata la mamma. Spengo la tv. Guardo l’ora, sono le due. Per fortuna dovrei essere già a casa.

<<Ciao mamma!>>

<<Buongiorno Davide, ti vedo contento, è andata bene la verifica di matematica?>>

<<Sì è andata benissimo!>>

La mamma prepara la pasta al ragù. Intanto io guardo sul registro che argomenti nuovi hanno spiegato i prof, così se la mamma mi chiede so come risponderle. Guardo anche se il prof di latino ha caricato i voti. Ho preso 7. Almeno è sufficiente, non è poi così male. Però avevo tutti 9… ma alla fine a cosa mi serviva avere tutti 9? Se prendessi sette in tutte le materie sarei promosso e avrei anche tempo per divertirmi. Perché non ci ho pensato prima?

<<Davide è pronto, vieni a tavola.>>

<<Eccomi.>>

<<Alla fine come è andata la versione di latino, il prof le ha già corrette?>>

<<Sì, ho preso 7.>>

<<Hai preso 7? E me lo dici così? Ti rendi conto? Davide ma come hai potuto permetterti! Chissà cosa avrà pensato il prof quando ha visto quella schifezza… di sicuro è indignato quanto me dell’accaduto.>>

<<Dai mamma è un 7 non è insufficiente…>>

<<Ma che discorso imbarazzante! 7 è un’insufficienza, 8 è un’insufficienza, 9- è un’insufficienza quando si ha la media del 9! Ti rendi conto di quello che hai combinato?>>

<<Non farne una tragedia…>>

<<Davide, è una tragedia! Cosa penseranno tutti adesso di te, di me, di tuo padre! Perché sei così crudele con noi? A cosa ci hai condannati!>>

<<Mamma non è successo niente, il mondo non gira attorno a te, nessuno ci sta pensando!>>

<<I professori, tutti i genitori, che brutta figura…>>

<<Mamma dai addirittura…>>

<<Vattene Davide, non ti voglio più vedere.>>

<<Sto finendo la pasta un attimo.>>

<<Ho detto: esci da questa stanza.>>

<<Mamma, ma sono tuo figlio!>>

<<Smettila, non ti voglio più sentire, le mie orecchie ne hanno abbastanza. Ora vattene, per piacere.>>

Così è finito il mio momento di euforia. Per tutta la settimana mi sono sforzato di essere lo stesso di sempre, ma dentro di me continuavo a pensare che non ne potevo più. Io sono sempre stato così. Se non avessi scoperto questa parte di me avrei continuato a vivere una vita noiosa e ripetitiva senza nemmeno rendermene conto. Non so chi o cosa mi abbia aperto la mente. So solo che ne avevo bisogno, e avevo bisogno che arrivasse questa domenica.

<<Davide, smettila di ciondolare, preparati che tra poco arriva Alessia!>>

Alessia. Ora che tutto è cambiato, pure il suono del suo nome mi suona più dolce e meno fastidioso. In effetti, è da quando l’ho incontrata che è iniziato tutto questo. È da quando l’ho conosciuta che ho conosciuto me stesso. È merito suo se so chi sono. Realizzarlo fa un effetto strano. Non vedo l’ora di rivederla.

Il campanello suona, e vado ad aprire pieno di gioia. Questa volta mi sono vestito il modo diverso. Ho messo i jeans e una t-shirt. La mamma quando mi ha visto prima di uscire ha fatto una faccia disgustata.

<<Ciao Alessia!>>

<<Ciao…>>

Oggi è venuta da sola.

<<La mamma non è in casa.>>

<<E quindi?>>

<<Ti va di uscire? Diremo che abbiamo studiato storia.>>

In un attimo la sua espressione à mutata.

<<Ci sto.>>

Usciamo e prendiamo un gelato. Alessia è diversa oggi, è così simpatica e gentile con me.

<<Adesso devi dirmi cos’è successo!>>

<<In che senso?>>

<<Lo sai a cosa mi riferisco>> e mi guarda la maglietta.

<<Non sai quante cose sono cambiate in una settimana.>>

Siamo amici da poco e mi sento così a mio agio con lei. C’è un qualcosa che ci lega, come un filo invisibile che ci connette. Come se non ci fosse bisogno di presentarci, tanto lei sa già chi sono, e io so già chi è lei, siamo troppo simili per non comprenderci.

<<Prima era tutto così noioso… studiavo tutto il tempo, prendevo nove in tutto, davo il contentino alla mamma e finiva lì. Le uniche cose belle erano il mio quaderno di poesie e i miei libri.>>

<<Mi ricordo quel quaderno… era un po’ cringe senza offesa.>>

<<Adesso è tutto più divertente, capisci, se fossi come la settimana scorsa adesso saremmo chiusi in camera a studiare, invece siamo qui a…>>

<<A divertirci.>>

<<Esatto, a divertirci!>>

<<Secondo me è giusto così, insomma a chi importa se mia mamma si vergogna di me…>>

L’espressione di Alessia muta nuovamente. Improvvisamente inizia a piangere.

<<Ho detto qualcosa di male?>>

<<No no è che… a me importa.>>

<<Che cosa?>>

<<Senti… non voglio rovinarti la giornata.>>

<<Ma va! Non preoccuparti.>>

<<È che veramente nessuno mi accetta, ma non può non importarmene. Tipo, alle elementari studiavo tanto, però non ero molto brava… tutte le altre bambine imparavano così velocemente, mentre io avevo bisogno di tempo, ero diversa. Per questo hanno iniziato a escludermi, ero la stupida, quella che non capiva, per loro.>>

<<Sai anche a me un episodio mi ha cambiato, ho sbagliato un rigore e tutti si sono arrabbiati con me, i miei compagni, i miei genitori.>>

<<Esatto, ogni volta che andavo peggio delle altre bambine a una verifica, mio padre si arrabbiava tantissimo. Poi ho pensato di smettere di studiare, mi sentivo giustificata a farlo, era così inutile tanto. Poi all’inizio del liceo ho provato a ricominciare a studiare, magari era cambiato qualcosa. Invece niente, ero la stessa.>>

È un po’ triste capire che ciò che ci lega è il dolore per il fallimento. È ciò che ha spinto me a cercare di non sbagliare mai per non deludere gli altri, ed è ciò che ha spinto lei a sbagliare continuamente, come una forma di rassegnazione al giudizio negativo degli altri. Siamo così diversi, ma allo stesso tempo così simili.

<<Adesso in realtà non so neanche perché ti sto dicendo tutte queste cose dato che ti conosco a malapena, quindi direi di smetterla. Hai dei fazzoletti?>>

Così le passo un po’ di tovagliolini della gelateria e ricomincio ad essere felice, o a fingere di esserlo. Entrambi abbiamo passato la vita a fingere. Noi abbiamo bisogno l’uno dell’altra, tutto potrebbe diventare così semplice. L’entrata di Alessia nella mia vita è stata una benedizione, è una persona così pura, sincera. Lei mi piace. È incredibile, io la amo. Non pensavo sarebbe mai successo.

Suona il telefono. Rabbrividisco. È la mamma. Guardo l’orario, è a casa. Ci hanno scoperti.

<<Pronto?>>

<<Torna immediatamente a casa.>>

E mi chiude in faccia. Di corsa io e Alessia torniamo a casa. Ci siamo distratti, non ci siamo resi conto che il tempo passava.

Appena arrivati a casa, la mamma incomincia a parlare.

<<Davide, allora proprio non vuoi capire? Prima il sette in latino, poi scopro che hai balzato la scuola, adesso mi fai pure questo? Come ti vengono certe idee per la testa, per punizione non potrai uscire fino alla fine del mese. Santo cielo, proprio adesso che tuo padre torna dalla Francia, che situazione vuoi fargli trovare? Dovresti vergognarti.>>

<<Signora, la prego non lo sgridi, è stata tutta colpa mia.>>

È Alessia. Che sta dicendo? Non è assolutamente vero, ma mi sento bloccato, non riesco a dire niente.

<<L’ho convinto io a uscire, non volevo studiare storia, lui ha insistito ma non c’è stato verso. Mi scusi, sono stata molto maleducata, spero che mi potrà perdonare.>>

Come sempre, sta dicendo quello che gli altri si aspettano da lei.

<<Basta Alessia. Non posso credere che tu sia la figlia di Giacomo. Riferirò a Giacomo che questi incontri non arricchiscono né te né Davide. Torna a casa adesso, che è ora di pranzo.>>

<<Mamma ti prego non esagerare!>>

Non può farmi questo.

<<Ho deciso e Giacomo sarà d’accordo. Alessia, salutami il papà.>>

Alla fine quel filo non era resistente quanto pensassi, e ci è voluto veramente poco per tagliarlo e dividerlo a metà. E nonostante tutto, una parte di lei sarà sempre con me e una parte di me sarà sempre con lei. Anche se quel filo è stato tagliato in due, le due estremità un tempo congiunte portano il segno di quella cesura, come una ferita, una cicatrice che a volte torna a far male. Non la dimenticherò mai, custodirò il ricordo di Alessia per sempre, come se un nodo ancora legasse la mia metà del filo alla sua.

Quella domenica mattina, nella cucina di casa mia, io e Alessia ci siamo salutati per sempre.