Ci fa piacere inaugurare la nuova stagione con la pubblicazione di un racconto scritto da una giovane autrice dei nostri laboratori di storytelling. Una storia nera, a tratti violenta, una vicenda di disperazione e marginalità. Buon lettura.

Il colosseo

IL CORAGGIO DI FARE

anonimo

Il sole è già calato, il cielo senza nuvole si sta oscurando sempre più. Aleggia un leggero profumo di pino. Un venticello estivo mi accarezza dolcemente la pelle. Il fruscio delle foglie mi culla, come in un ipnotico balletto. Il Colosseo è davanti a me. È davvero bellissimo, ma di sera è magico. Non so perché, ma la sua vista mi ha sempre tranquillizzata. Ogni volta che ho bisogno di riflettere mi rifugio qua; è il mio posto sicuro. Esattamente come quella volta in cui, dopo aver coinvolto un caro amico in un crimine così inumano, sono venuta qui. Ero fortemente provata; non riuscivo a realizzarlo, quelle cose succedono solo nei film. Questo monumento, simbolo di una civiltà che ha fatto la storia, ha resistito per secoli e secoli. Mi sento fragile di fronte alla sua maestosità. All’improvviso un forte dolore alla nuca mi strappa ai miei pensieri. Mi si annebbia la vista. Per quanto ci provi, non riesco a tenere le palpebre aperte. Le gambe si trasformano in poltiglia, la mente si fa confusa e dopo poco il buio invade i miei occhi.

Molto lentamente il mondo torna a prendere forma tra le palpebre schiuse. Non so quanto tempo è passato, devo essere svenuta. Mi tocco la nuca, è sanguinante. Il dolore non accenna a smettere. Mi guardo attorno. Sono in una piccola stanza con una finestra da cui filtra un po’ di luce. Come sono arrivata qui? Cosa mi è successo? Mi metto in ascolto ma non sento niente. Silenzio di tomba. Il mio sguardo cade su un foglietto di carta poco distante da me. Striscio e lo raggiungo. Lo prendo in mano. A penna trovo scritto un nome con cui speravo di non avere più niente a che fare. Il passato prima o poi torna a perseguitarti.

Rivedo il corpo esanime di Pietro. Il sangue che fuoriesce dal foro di proiettile che gli ha trafitto il petto. L’espressione quasi beata in volto. Non avevo altra scelta. Ho dovuto ucciderlo, altrimenti lui avrebbe ucciso me. Quanto vorrei non aver mai fatto quell’investimento disastroso! Speravo mi avrebbe fruttato qualche soldo, invece mi ha solo portato alla rovina. Conoscevo una persona dei bassifondi, Marco. Nonostante le sue frequentazioni poco raccomandabili e la famiglia disastrata in cui è cresciuto, lui non è come tutti gli altri delinquenti. Non ha scelto lui la vita che ha, l’hanno fatto i suoi genitori per lui. Marco ha un cuore buono; lui c’è sempre per me, è stata la mia ancora di salvezza quando volevo mollare tutto. Non ci vediamo e non ci sentiamo spesso ma probabilmente è l’unica persona di cui mi fidi davvero. Anche in quell’occasione, gli chiesi aiuto. Mi mandò da Pietro. Lo incontrai. Non era affatto come mi immaginavo: era un uomo sulla sessantina, statura robusta e alta, carnagione olivastra, capelli sale e pepe, occhi color nocciola. Stavo sudando freddo ma ormai ci ero dentro fino al collo. Dovevo assolutamente trovare un modo per uscirne. Pensai che Pietro fosse la soluzione e invece fu colui che spinse la mia testa sott’acqua, in un mare di guai. Ci accordammo per una cifra, mi avrebbe procurato i soldi il giorno stesso, insistette perché non mi preoccupassi della scadenza per la riconsegna del “prestito”. Ebbi una brutta sensazione, ma ero così bisognosa di una soluzione che accettai. Un errore gravissimo.

Passò qualche tempo e la mia situazione non faceva che peggiorare. Un giorno mi ritrovai Pietro davanti al portone di casa. Come diavolo faceva a sapere dove abitavo? Mi chiese indietro i soldi, così senza preavviso. Ero nel panico. Cercai di prendere tempo e lo implorai di incontrarci un’altra volta. Mi propose un incontro in un magazzino abbandonato nel quartiere Esquilino, una settimana dopo. Accettai immediatamente ma in mente avevo ben altro. A mezzogiorno del giorno prestabilito mi recai al nostro appuntamento. Pietro era già arrivato. Gli puntai la pistola che mi ero portata dietro, la vecchia pistola di papà che per anni era stata dimenticata in fondo a un cassetto chiuso a chiave. Pietro fece per prendere qualcosa dalla tasca ma fu fermato da un colpo. Il colpo che gli sparai puntando dritto al petto. A quel punto le cose successero rapidamente. Pietro crollò rovinosamente e io lasciai cadere la pistola. Non mi mossi di un millimetro. Non riuscivo a credere di averlo fatto. Avevo immaginato così tante volte la scena che mi parve quasi un sogno. Dopo quella che mi sembrò un’eternità, mi decisi a chiamare Marco, l’amico che mi aveva mandato da Pietro. Sentire la sua voce al telefono mi riportò alla realtà. Disse che sarebbe arrivato il prima possibile. Sentii dei passi che si avvicinavano una ventina di minuti dopo. Eccolo. Era qui. Ad aiutarmi. Lui mi guardò in modo preoccupato. Mi abbracciò.

“Vattene! A lui ci penso io. Tu non sei mai stata qua.”

“Grazie. So di chiederti molto ma non so chi altro potrebbe aiutarmi”

“Non preoccuparti. Sai bene che queste cose per me sono la normalità.”

“Oddio! Non ho avuto altra scelta, se non l’avessi fatto, mi avrebbe perseguitato fino ad uccidermi,

ma ora che l’ho fatto…”

“La prima volta è sempre la più difficile. Quello che hai fatto tu non è affatto roba per tutti. Ci vuole un certo fegato anche se la parte più dura è il dopo. Devi tenere duro e non lasciarti sopraffare delle emozioni. Devi domarle altrimenti quelle diventano come parassiti: ti si appiccicheranno addosso e ti consumeranno. Io non voglio perderti. Ora vai!

Obbedii e corsi via lasciandolo solo.

Rivangare ora nella memoria, nella situazione in cui mi trovo, una storia così drammatica mi fa sentire svuotata di tutte le energie. Mi addormento, ma vengo svegliata poco dopo da un rumore di passi. Mi stropiccio gli occhi e vedo aprire la porta. Entra un giovane uomo. Assomiglia in modo incredibile a Pietro, per un attimo credo di star sognando. Lui mi sorride amabilmente e dice: “Ti ho portato acqua e cibo”. Solo allora mi accorgo che in mano ha un vassoio con un bicchiere d’acqua e un piatto di pasta in bianco. Lascia il vassoio per terra e se ne va.

Bevo l’acqua. Che sollievo sentirla scendere in gola! La pasta non è male: leggermente salata. Finisco il piatto in un batter d’occhio. Ho perso completamente la cognizione del tempo. Non ho idea di che ore siano, da quanto tempo sono qua. Semplicemente aspetto che torni il mio rapitore, il figlio di Pietro, presumibilmente. Dopo chissà quanto tempo, la porta si apre e lui è davanti a me. “Vuoi vendetta, vero? Lo capisco perfettamente. Forza, uccidimi!” butto lì.

“Tu mi hai portato via mio padre e devi pagare” scoppia a piangere.

“Appunto! Facciamola breve: prendi la pistola che hai dietro la schiena e sparami”

“Lui era tutto per me. Lui mi ha cresciuto. È grazie a lui se sono in questo mondo” urla piangendo ininterrottamente.
“Non posso giustificare le mie azioni. Ho fatto una scelta e devo accettarne le conseguenze. Sono in pace con me stessa. Se uccidermi è quello che vuoi, fallo senza perdere tempo!”

“Io… non so se ne ho la forza”

Mi punta la pistola contro, ma la sua mano trema. Gliela prendo e punto la canna dell’arma dritta in mezzo al mio petto.

“Cosa ti frena?”

“Ora ho capito. Non sei tu la persona che devo uccidere. Che ne sai tu? – continua gemendo, ormai non parla più con me ma con se stesso – Io devo letteralmente la mia vita a mio padre. Io avevo un problema con l’eroina. Una sera ho esagerato e sono andato in overdose. Papà mi ha trovato e mi ha salvato. Dalla tossicodipendenza e da me stesso. Non puoi capire come mi sia sentito quando ho scoperto che avevi ucciso tu mio padre. Il mondo mi è crollato addosso. Ma una piccolissima parte di me era sollevata. Finalmente avrei potuto passar a miglior vita. Ero morto dentro da tanto tempo. Mi frenava la paura di deluderlo ma ora… Tu mi hai semplicemente dato il coraggio di fare quello che andava fatto. Non sentirti troppo colpevole: uccidendolo hai anche posto fine alle sofferenze di un povero tossicodipendente.”

“Che cazzo dici? Ho ucciso io tuo padre. Io e nessun altro.”

Punta la pistola sotto il mento e preme il grilletto. L’arma cade e lui sbatte la testa. Gli occhi sono aperti. Incrocio il suo sguardo. Mio Dio! Che ho fatto? Abbraccio il corpo, è ancora caldo. Lo stringo forte fino a farmi mancare il respiro. Gli occhi sono appannati. Le lacrime attraversano le mie guance. Lo sparo risuona nella mia mente “BASTA!” grido in preda al delirio. Una voragine di disperazione pura mi divora. Guardo la pistola. Senza pensarci due volte, l’afferro e la punto contro di me.